I dazi USA: un’imposta sull’economia globale?

Di Paolo Poletti

Introduzione.
L’amministrazione Trump ha annunciato una nuova ondata di dazi doganali su prodotti europei e cinesi, rievocando lo spettro del protezionismo. L’obiettivo dichiarato è proteggere l’industria americana, ma le conseguenze rischiano di essere gravi per l’economia globale. Cerchiamo di capire analizza cosa siano i dazi, come siano stati  calcolati, gli effetti sull’economia statunitense, europea e italiana, i riflessi sui mercati finanziari, le reazioni dell’UE e le possibili implicazioni strategiche legate al debito pubblico USA.

Cosa è successo il 3 aprile 2025.
Il 3 aprile 2025, il Presidente degli Stati Uniti ha annunciato l’introduzione di una tariffa base del 10% su tutte le importazioni, efficace dal 5 aprile 2025. Oltre a questa misura, sono stati applicati dazi aggiuntivi specifici per alcuni paesi, basati su presunte barriere commerciali o squilibri negli scambi con gli Stati Uniti. Questi dazi supplementari, in vigore dal 9 aprile 2025, si sommano al dazio base del 10%:

Per quanto riguarda la Russia, non sono stati applicati dazi aggiuntivi oltre al dazio base del 10%. L’amministrazione statunitense ha giustificato questa decisione citando il volume limitato degli scambi commerciali con la Russia e le sanzioni già esistenti che influenzano tali rapporti.

È importante notare che questi dazi si aggiungono a eventuali tariffe preesistenti e possono avere (come vedremo) implicazioni significative sul commercio internazionale e sulle economie dei paesi coinvolti. Da notare che alcuni materiali, come l’acciaio e l’alluminio, sono stati trattati separatamente rispetto ai dazi del 3 aprile 2025. In particolare, il 12 marzo 2025 gli Stati Uniti hanno imposto un dazio del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio, misura volta a rafforzare la produzione nazionale. Questi dazi rimangono in vigore e non sono influenzati dai successivi dazi generalizzati del 10% o dai dazi reciproci più elevati annunciati il 3 aprile.

Inoltre, il 2 aprile 2025, l’amministrazione Trump ha ampliato l’ambito dei dazi sull’alluminio per includere prodotti come le lattine di birra e le lattine di alluminio vuote. Questi dazi specifici per l’acciaio e l’alluminio sono stati applicati universalmente a tutte le importazioni di tali materiali, indipendentemente dal paese di origine e sono separati dai dazi annunciati successivamente.

Cosa sono i dazi e come sono stati calcolati.
I dazi sono, in sostanza, imposte applicate da uno Stato sui beni che arrivano dall’estero. Ogni volta che un prodotto viene importato in un Paese, può essere soggetto a un pagamento aggiuntivo: il dazio, appunto. Questo fa sì che il prezzo finale di un bene importato aumenti rispetto a quello originario, rendendolo spesso meno competitivo rispetto ai prodotti fabbricati localmente.
Le motivazioni che spingono un governo a introdurre dazi possono essere diverse. Una delle più comuni è la protezione delle imprese nazionali: se i beni prodotti all’estero costano meno, le aziende locali rischiano di non riuscire a competere. Applicando un dazio, lo Stato interviene per “riequilibrare” il confronto, tutelando l’industria interna. Ma i dazi possono anche servire a fare cassa, generando entrate per il bilancio pubblico, oppure a regolare le relazioni commerciali internazionali, per esempio in risposta a pratiche scorrette come il “dumping” (cioè la vendita di merci a prezzi artificialmente bassi per conquistare un mercato).

Per fare un esempio semplice: se una bicicletta prodotta in Cina costa 100 euro e l’Unione Europea decide di imporre un dazio del 20%, il prezzo di quella bici salirà a 120 euro una volta entrata nel mercato europeo. Di conseguenza, una bicicletta prodotta in Italia (a parità di qualità) diventa relativamente più conveniente per il consumatore. Tuttavia, in un’economia sempre più interconnessa e globalizzata, l’imposizione di dazi può avere effetti collaterali anche rilevanti. In primo luogo, tende ad aumentare i prezzi per i consumatori, che si ritrovano a pagare di più per beni di uso quotidiano. In secondo luogo, può generare ritorsioni commerciali da parte dei paesi colpiti, innescando spirali di protezionismo. Ancora, i dazi possono disgregare le catene globali del valore, cioè quei processi produttivi distribuiti tra più paesi che caratterizzano ormai buona parte dell’industria mondiale, provocando rallentamenti e inefficienze.

Anche i mercati finanziari risentono di tali dinamiche, reagendo con volatilità all’aumento dell’incertezza. Infine, i paesi fortemente dipendenti dall’export, come l’Italia o la Germania, possono subire danni economici significativi, in termini di occupazione, PIL e competitività. In conclusione, i dazi sono uno strumento potente ma delicato. Se usati con misura e all’interno di una strategia di lungo periodo, possono contribuire a difendere settori industriali strategici. Ma se impiegati in modo aggressivo o come risposta politica, rischiano di compromettere non solo gli equilibri commerciali, ma anche la stabilità economica globale. Per questo, ogni decisione in materia di dazi va valutata con attenzione, consapevoli del fatto che, in un mondo interdipendente, nessun dazio è mai solo un’imposta sull’importazione: è anche una scelta strategica che può avere effetti diffusi, duraturi e a volte imprevisti.

Per applicare i dazi, l’amministrazione Trump ha utilizzato un metodo di calcolo, definito “reciprocal tariff”. Il metodo si basa sul deficit commerciale bilaterale, dividendo il disavanzo per le importazioni USA dal paese in questione e dimezzando la percentuale risultante. Un sistema ritenuto da molti esperti impreciso e anacronistico, incapace di rappresentare la complessità delle filiere globali. Focus: la formula “reciprocal tariff” e i suoi limiti. Il metodo di calcolo dei dazi promosso dall’amministrazione Trump, noto come “reciprocal tariff”, appare semplicistico e inadeguato a descrivere la complessità degli scambi internazionali.

Questa la formula: 𝐷𝑎𝑧𝑖𝑜 𝑖𝑚𝑝𝑜𝑠𝑡𝑜 = Deficit commerciale USA con il paese X Importazioni USA da X 𝑥 0,5

Dove:
– il “deficit commerciale” è calcolato come esportazioni USA verso X meno importazioni da X (valore negativo);
– il risultato, espresso in percentuale, determina il dazio applicabile, con un minimo del 10%.

Perché questa formula è inadeguata:
– considera solo l’interscambio di beni materiali, ignorando gli scambi di servizi, soprattutto digitali, dove gli USA sono in surplus;
– non tiene conto delle filiere globali, in cui beni e componenti attraversano più confini;
– tratta allo stesso modo beni tecnologici e beni a basso valore aggiunto;
– applica un approccio unilaterale che contrasta con le regole multilaterali del commercio (WTO).

Un esempio paradossale: un paese che esporta molto verso gli USA ma importa poco per ragioni settoriali o socioeconomiche (popolazione limitata, povertà) potrebbe vedersi imporre dazi elevati, pur in assenza di una reale pratica sleale. Una visione che ignora l’interdipendenza dell’economia globale. Effetti sull’economia americana: un rischio boomerang. Sul breve termine, le tariffe possono proteggere settori specifici. Tuttavia, i costi per i consumatori aumentano, così come quelli per le imprese che importano componenti dall’estero. Inoltre, quando i prodotti stranieri diventano più costosi a causa dei dazi, le merci nazionali analoghe – ora relativamente più convenienti – tendono a guadagnare terreno sul mercato interno. In questo contesto, i produttori locali si trovano in una posizione di vantaggio: con una concorrenza estera ridotta, possono essere tentati di aumentare i prezzi non per necessità, ma per migliorare i propri margini di profitto.

Questo effetto rischia di annullare i benefici attesi per i consumatori, che finiscono per pagare di più sia per i prodotti importati, rincarati dalle tariffe, sia per quelli nazionali, divenuti meno soggetti alla pressione competitiva. In assenza di adeguati meccanismi di controllo e di un mercato realmente concorrenziale, il rischio è che la protezione offerta dai dazi si trasformi in un aggravio economico per le famiglie, con effetti regressivi soprattutto per le fasce più vulnerabili della popolazione. Ne risentono la fiducia dei mercati e la competitività complessiva. Il Nasdaq, termometro dell’innovazione americana, è calato più del Dow Jones. Anche la spinta agli investimenti esteri rallenta: l’autarchia economica riduce l’attrattività del mercato USA.

I dazi servono a “fare cassa”?
Sostenere che i dazi possano servire a “fare cassa” per lo Stato è un argomento spesso evocato, soprattutto da Donald Trump, che li presenta come una fonte di entrate per il bilancio federale. In effetti, un dazio è a tutti gli effetti una tassa sulle importazioni, e quindi può generare entrate significative: nel primo mandato Trump, i dazi sulle merci cinesi portarono diversi miliardi di dollari nelle casse del Tesoro, e un dazio generalizzato del 10% su tutte le importazioni, come quello annunciato nell’aprile 2025, potrebbe teoricamente produrre centinaia di miliardi ogni anno.

Tuttavia, questo meccanismo è ben più complicato di quanto appaia. Innanzitutto, non sono i produttori esteri a pagare i dazi, ma le imprese americane che importano quei beni e, in ultima analisi, i consumatori. Quindi, l’aumento delle entrate fiscali da dazi corrisponde a un aumento del costo della vita per famiglie e imprese. Inoltre, le barriere commerciali finiscono spesso per rallentare la crescita economica, deprimere gli investimenti e danneggiare le esportazioni, specie se altri Paesi rispondono con misure simmetriche. Il risultato può essere un’economia meno dinamica, con un effetto negativo sulle entrate fiscali complessive. Infine, i dazi possono influenzare anche la percezione internazionale degli Stati Uniti come mercato aperto e affidabile, aumentando l’incertezza e spingendo in alto i rendimenti sui titoli del debito pubblico. In questo scenario, il costo del debito aumenta, e le entrate aggiuntive ottenute con i dazi rischiano di essere più che compensate dalle uscite per interessi.

In sintesi, se è vero che i dazi possono temporaneamente rafforzare il bilancio statale, si tratta di un beneficio illusorio e potenzialmente controproducente. L’apparente guadagno fiscale si accompagna infatti a costi economici, politici e sociali che, nel lungo periodo, possono aggravare anziché migliorare la posizione finanziaria degli Stati Uniti. Il rischio sistemico per l’Eurozona.
Nel marzo 2025, il Parlamento europeo ha reso pubblico lo studio “Euro Area Risks Amid US Protectionism” (codice PE 764.186), commissionato al Comitato ECON (Committee on Economic and Monetary Affairs), che riunisce esponenti dei principali gruppi politici dell’Europarlamento (PPE, S&D, Renew Europe, Verdi/EFA e ID). L’obiettivo dello studio era analizzare le conseguenze delle nuove politiche tariffarie introdotte dagli Stati Uniti nei confronti dell’Unione Europea e valutarne l’impatto sui principali canali economici dell’Eurozona: quello macroeconomico, quello finanziario e quello occupazionale. Secondo quanto emerge dal rapporto, l’applicazione da parte degli USA di dazi generalizzati del 10% su tutte le merci importate, unita a tariffe fino al 60% su alcuni prodotti specifici (soprattutto di origine cinese), ha contribuito a un aumento dell’incertezza sistemica. Questo fenomeno è confermato dall’andamento dell’indice Trade Policy Uncertainty, che misura la percezione dei rischi legati alle politiche commerciali.

Gli effetti sull’economia europea, pur non drammatici, non sono irrilevanti: si stima una contrazione dello 0,44% della domanda aggregata, con ripercussioni significative in quei settori fortemente orientati all’export, come meccanica, farmaceutica e automotive. I Paesi maggiormente esposti risultano essere Germania, Italia, Francia, Belgio e Irlanda. Quanto alle conseguenze su occupazione, ogni miliardo di euro in meno di export potrebbe mettere a rischio 8.000-10.000 posti di lavoro. Sul fronte monetario, lo studio raccomanda alla Banca Centrale Europea di adottare un approccio flessibile, basato sull’indice dei prezzi alla produzione (Producer Price Index – PPI) piuttosto che su quello al consumo (Consumer Price Index – CPI, che misura la variazione media dei prezzi pagati dai consumatori finali per un paniere di beni e servizi, come cibo, abbigliamento, energia, affitto). Il Producer Price Index – PPI, infatti, misura la variazione media dei prezzi ricevuti dai
produttori per i beni e servizi venduti nel mercato interno. In pratica indica quanto costa produrre qualcosa prima che arrivi al consumatore finale. In questa situazione è consigliabile perché è un indicatore anticipatore dell’inflazione al consumo ed è altresì utile per valutare le pressioni sui costi delle imprese e prevedere future variazioni nei prezzi al dettaglio. Esempio: se aumenta il costo dei componenti elettronici per i produttori, è probabile che questo si traduca in un aumento dei prezzi degli smartphone.

Alla BCE si consiglia inoltre di:
– evitare reazioni impulsive e la retorica protezionistica, che rischiano di alimentare una guerra commerciale con effetti stagflazionistici;
– tenere conto invece del contesto globale caratterizzato da politiche fiscali espansive e dalla forte concorrenza asiatica;
– considerare il rischio che la Cina, per compensare la perdita di accesso al mercato statunitense, possa reindirizzare il proprio surplus industriale verso l’Europa (secondo “shock Cina”). Questo potrebbe tradursi in un aumento delle esportazioni cinesi a prezzi competitivi, mettendo sotto pressione i produttori europei e sollevando preoccupazioni riguardo a pratiche di dumping.

Inoltre, eventuali ritorsioni contro aziende tecnologiche USA potrebbero rallentare l’accesso alle innovazioni e l’estensione delle misure protezionistiche anche ad altri paesi, frammenterebbero ulteriormente le catene globali del valore. Viene sottolineata l’importanza di una “forward guidance” (la banca centrale “guida in avanti” – da cui il termine forward guidance – comunicando quali saranno le sue intenzioni future, riducendo l’incertezza e rendendo più facili le decisioni di spesa ed investimento) efficace e di una maggiore integrazione tra politiche commerciali e monetarie.

Un altro elemento di preoccupazione riguarda il possibile effetto domino sui mercati obbligazionari: l’aumento del cosiddetto “term premium” sui titoli di Stato statunitensi potrebbe ripercuotersi sui rendimenti dei titoli europei, aggravando il costo del debito pubblico, soprattutto nei Paesi già fortemente indebitati, come l’Italia. In conclusione, secondo lo studio, la resilienza dell’Eurozona dipenderà dalla capacità di agire su quattro leve strategiche:

– coordinamento delle politiche monetarie, in modo che siano espansive e flessibili, focalizzate sull’inflazione interna (PPI) anziché sull’andamento del cambio o sull’inflazione al consumo (CPI);
– stimoli fiscali mirati;
– diversificazione delle rotte commerciali;
– investimenti strutturali nell’innovazione industriale.

Effetti sull’Europa e sull’Italia.
Secondo le elaborazioni ISTAT pubblicate nella nota sull’andamento congiunturale 2024-2025, l’Italia figura tra i paesi europei più esposti alle nuove politiche tariffarie statunitensi. Nel 2024, oltre il 48% dell’export italiano è stato indirizzato verso mercati extra-UE, con gli Stati Uniti che assorbono circa il 10% del totale, soprattutto nei settori agroalimentare, manifatturiero, moda, automotive e meccanica di precisione. L’elevato grado di apertura commerciale, unito alla forte specializzazione produttiva del sistema delle piccole e medie imprese (PMI), rende l’Italia particolarmente vulnerabile a shock esterni asimmetrici come l’introduzione di dazi. Secondo l’ISTAT, la riduzione dell’export verso gli USA potrebbe costare allo 0,5%-0,7% del PIL italiano. Le PMI che operano nel Made in Italy, con limitate possibilità di riconversione produttiva o diversificazione dei mercati di sbocco, sono tra le realtà più esposte. La produzione industriale, pur avendo mostrato segnali di ripresa nel gennaio 2025 (+3,2% rispetto al mese precedente), resta fragile. La fiducia delle imprese è peggiorata in quasi tutti i comparti, ad eccezione del manifatturiero. Sul fronte dell’occupazione si osserva una crescita generalizzata, anche tra le fasce femminili e giovanili, ma persiste un calo tra i lavoratori tra i 35 e i 49 anni. Le retribuzioni contrattuali, cresciute in media del 3,1% (e del 4,0% nel settore privato), potrebbero non compensare pienamente le spinte inflattive indotte dai dazi.

La relazione del Parlamento europeo e l’analisi ISTAT convergono su un punto chiave: l’Italia è esposta a rischi superiori rispetto ad altri partner europei, non solo per motivi commerciali, ma anche a causa di una minore capacità di sostituire mercati esterni e di un’alta dipendenza da filiere internazionali complesse. La necessità di una risposta integrata – a livello nazionale ed europeo – appare dunque evidente e urgente.

Le contromisure dell’Unione Europea.
La Commissione europea ha avviato un piano di risposta multilivello: ricorso al WTO, dazi di ritorsione su prodotti simbolici americani, accelerazione su trattati commerciali con India, ASEAN e America Latina, rilancio della sovranità industriale europea. Secondo Il Sole 24 Ore, si valuta anche una nuova disciplina per i sussidi alle imprese strategiche europee, ispirata al modello Inflation Reduction Act statunitense. Sebbene le politiche monetarie e fiscali espansive – come quelle promosse dal governo tedesco o dalla Commissione europea – possano offrire un sollievo congiunturale, è difficile immaginare che una risposta europea possa limitarsi al solo piano macroeconomico. L’elevata esposizione commerciale dell’Unione e la crescente pressione concorrenziale da parte della Cina rendono necessaria una strategia più articolata. Inoltre, lo spazio di manovra fiscale resta disomogeneo tra gli Stati membri: l’Italia, ad esempio, è fortemente vincolata dal proprio livello di debito pubblico e dalla sensibilità dei mercati. In assenza di strumenti condivisi, come eurobond o bilanci comuni più incisivi, la risposta economica dell’UE rischia di essere frammentata e insufficiente. Per questo motivo, alla dimensione macroeconomica occorre affiancare una strategia commerciale assertiva, capace di difendere l’autonomia produttiva e negoziale del
continente.

Impatto sui mercati finanziari.
L’annuncio dei dazi ha aumentato la volatilità: i capitali si sono spostati verso beni rifugio (oro, franco svizzero, Bund tedeschi). Paradossalmente, i rendimenti dei Treasury USA sono scesi (il decennale è passato dal 4,2% al 4,0%), a causa dell’aumento della domanda di titoli sicuri. Ma il protrarsi della crisi commerciale potrebbe avere l’effetto opposto: riduzione della fiducia globale nei confronti del debito americano e aumento dei costi di rifinanziamento.

Trump e la sostenibilità del debito pubblico.
Alcuni osservatori ritengono che l’amministrazione Trump stia cercando di influenzare indirettamente i rendimenti dei Treasury bond. L’idea sarebbe quella di generare un clima di incertezza globale, al fine di spingere gli investitori verso i titoli del Tesoro statunitensi considerati più sicuri, aumentando così la domanda e, di conseguenza, riducendo artificialmente i tassi di interesse. Tuttavia, questa strategia è altamente rischiosa: se la Cina o altri grandi detentori di debito americano decidessero di vendere i propri titoli, l’effetto opposto si manifesterebbe, con un aumento dei rendimenti e un aggravio sul costo del debito.

Il problema di fondo è che il debito pubblico degli Stati Uniti ha raggiunto dimensioni storiche, superando i 34 trilioni di dollari e rappresentando ormai oltre il 124% del PIL nazionale. Questo livello di indebitamento richiede una quota sempre più ampia del risparmio mondiale per essere rifinanziato, ma gli Stati Uniti stanno affrontando crescenti difficoltà nel collocare i propri titoli. L’aumento dei tassi, combinato con l’enorme volume di debito, sta gonfiando il costo del servizio del debito, rendendo sempre più onerosa la necessità di attrarre investitori.

In passato, Washington poteva contare sulla forte domanda internazionale, in particolare da parte di Cina e Giappone, per assorbire con relativa facilità le nuove emissioni. Oggi, però, il quadro è cambiato: Pechino e Tokyo stanno progressivamente riducendo i propri acquisti, mentre la competizione globale per il risparmio si è intensificata. Anche l’Europa e altri grandi attori geopolitici hanno bisogno di capitali per finanziare le proprie priorità strategiche. In questo nuovo contesto, gli Stati Uniti non possono più assorbire da soli la maggior parte del risparmio globale senza essere costretti a offrire rendimenti significativamente più elevati, con tutto ciò che ne consegue in termini di sostenibilità fiscale.

Va inoltre sfatata l’idea, talvolta ripetuta da Trump, che l’Europa sia un “parassita commerciale”. In realtà, un surplus commerciale con gli Stati Uniti significa che le economie europee producono beni per soddisfare la domanda delle famiglie americane. Sono piuttosto gli Stati Uniti a vivere al di sopra dei propri mezzi, finanziando consumi e disavanzo grazie all’attrattività dei loro titoli di debito. Il dollaro, sopravvalutato anche secondo il FMI, danneggia le esportazioni statunitensi. Trump avrebbe potuto correggere questi squilibri con politiche fiscali più sobrie e meno incentivi alla domanda interna, ma ha preferito attribuire all’Europa la responsabilità dello squilibrio esterno americano.

Una lezione dalla storia: McKinley e i dazi del Novecento.
Trump ha più volte elogiato il presidente William McKinley, protagonista dell’era dei grandi dazi a inizio Novecento. McKinley impose tariffe elevate per proteggere l’industria americana, ma a fine mandato, di fronte a stagnazione e tensioni con gli alleati commerciali, cominciò a promuovere accordi bilaterali. Anche allora, l’autarchia non portò i risultati sperati. Una lezione storica che dovrebbe indurre cautela.

Conclusione.
I dazi voluti da Trump rappresentano più di una misura commerciale: sono una sfida geopolitica, una dichiarazione d’intenti su un nuovo ordine mondiale. Tuttavia, rischiano di trasformarsi in una tassa occulta per consumatori e imprese. L’UE e l’Italia in particolare, devono rispondere con lucidità: evitare l’escalation ma rafforzare la propria autonomia strategica. Solo così potremo affrontare un mondo sempre più competitivo, instabile e frammentato.

In questa prospettiva, l’Europa non può limitarsi a dichiarazioni di principio o a misure puramente difensive. Occorre invece costruire una posizione negoziale credibile, che preveda anche la possibilità di contromisure selettive – dai dazi di ritorsione a restrizioni su appalti pubblici – per far comprendere agli attori americani, imprese in primis, che l’escalation commerciale comporta un costo anche per loro. L’obiettivo non è rompere il dialogo, ma rendere possibile una trattativa realistica: perché al tavolo delle negoziazioni non ci si siede da deboli. Come in ogni confronto strategico, la fermezza iniziale può aprire la strada al compromesso. Solo così l’Europa potrà dimostrare di essere non solo un attore economico, ma anche politico, all’altezza delle sfide del nuovo ordine mondiale.